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venerdì 30 dicembre 2016

Il pensiero computazionale fornisce un nuovo linguaggio per la descrizione del mondo

di Enrico Nardelli

A fine novembre 2016 l’allora Ministra dell’Istruzione Stefania Giannini, nell’ambito dell’evento dedicato al Piano Nazionale Scuola Digitale alla Reggia di Caserta, ha annunciato l’avvio di un’iniziativa di importanza storica per la formazione informatica nella scuola italiana.

Non solo per il significativo investimento finanziario (100 milioni di Euro, di cui 65 per la primaria) ma anche per aver ribadito ancora una volta la centralità di questo tipo di formazione: «il pensiero computazionale altro non è che un nuovo linguaggio, il nuovo necessario modo per entrare in contatto con la realtà, anche, e soprattutto, se non si fa di mestiere». Venendo da una docente universitaria di Glottologia e Linguistica, si tratta di un riconoscimento culturale particolarmente gradito. L’investimento è finalizzato a far sì che: «il prossimo anno, tutte le scuole primarie avranno annualmente 60 ore di coding e quindi la possibilità di avere tra 10 anni una generazione di giovani italiani perfettamente alfabetizzati in quello che si chiama nuovo pensiero critico».

Ho già descritto gli elementi più caratteristici del pensiero computazionale, il termine che denota appunto gli aspetti culturali dell’informatica, indipendentemente dalla tecnologia digitale in cui essa si manifesta ormai dovunque intorno a noi.

Mi rendo conto però che, probabilmente a causa della sua novità, il pensiero computazionale viene molte volte descritto in modo parziale e quindi impreciso. Presento quindi la rielaborazione di una mia precedente definizione: “il pensiero computazionale è un processo mentale per far risolvere problemi ad un agente, sia esso persona o macchina, fornendogli una serie di istruzioni che deve eseguire in autonomia ”. Essa esplicita, in un contesto di divulgazione, tutte e sole le componenti essenziali, senza le quali il pensiero computazionale diventa altro. Più avanti discuterò in dettaglio i vari termini indicando, in qualche caso, alcune semplificazioni che ne alterano la natura. Per completezza scientifica segnalo anche la definizione più formale proposta da Jeannette Wing, la scienziata che ha contribuito a popolarizzare un termine introdotto da Seymour Papert.


Nel frattempo ricordo, a scanso di critiche superficiali, che per insegnare l'informatica non sono indispensabili quei dispositivi ed infrastrutture tecnologiche che in molti, forse troppi, casi sono obsoleti, se non assenti, nelle nostre scuole. Sarà molto più importante – affinché la novità diventi permanente e strutturale – la formazione degli insegnanti e l’organizzazione dell’iniziale fase transitoria. Ma non ho dubbi che i tecnici del Ministero sapranno gestire bene questi aspetti.

Per chi vuole toccare con mano “come si fa a studiare informatica senza i computer” segnalo alcune fonti. Prima di tutto le lezioni tradizionali disponibili sul sito di Programma il Futuro, il progetto MIUR – CINI che in due anni ha già esercitato al pensiero computazionale quasi un milione e mezzo di studenti per circa 8 ore a testa. Sono la versione italiana di alcune delle lezioni unplugged realizzate da Code.org. Vi è poi la traduzione italiana dell’eccellente libro gratuitoCS Unplugged”, che è anche un sito web (in inglese) contenente quasi 40 attività, per studenti di tutte le età.

Ho già discusso sull’importanza di questa formazione per lo sviluppo delle capacità cognitive razionali, che deve accompagnare e NON sostituire altre discipline, egualmente importanti per un’equilibrata e completa maturazione degli studenti. Sulla necessità di insegnare l’informatica come disciplina scientifica a tutti e di iniziare nella scuola primaria c’è un vasto consenso nei paesi occidentali. È scritto nel rapporto di gennaio 2012 “Shut down or restart ” della Royal Society, una delle associazioni scientifiche più prestigiose al mondo, sulla base del quale in UK da settembre 2014 è stato introdotto l'insegnamento dell'informatica nelle scuole di tutti gli ordini e gradi. È scritto nel rapporto di maggio 2013 dell’Accademia Francese delle Science, “Il est urgent de ne plus attendre ”.

Ovviamente, come per la matematica alle elementari non si insegna il calcolo differenziale (e non lo si fa neanche alle medie o alle superiori) così per l'informatica bisogna insegnare i concetti di base in modo adatto allo specifico livello di maturazione degli studenti, ed in modo indipendente dalla tecnologia.

Ecco allora l'analisi dei singoli termini della definizione:

  1. Processo mentale: Specifica il concetto sottolineando la sua indipendenza da tecnologie, strumenti concreti e sistemi fisici. Identifica pertanto l'importanza metodologica del pensiero computazionale, che è applicabile in molti ambiti disciplinari ed è riconosciuto come strumento concettuale per la conoscenza del mondo da scienziati come Peter J. Denning: «Computing is the fourth great domain of science. It is as fundamental as the physical, life, and social sciences» [P.J. Denning e P.S. Rosenbloom, Computing: the fourth great domain of science, Communications of the ACM, 2009]. Inoltre, lungi dal trasformare gli studenti in robot, li aiuta a sviluppare il pensiero critico, cioè a «non fermarsi all’apparenza dei fenomeni ma … a chiedersi cosa ci sia dietro». È utile anche ricordare qui quanto ha scritto nel 1968 George Forsythe, analista numerico ed uno dei padri della formazione universitaria in informatica, in quanto fondatore del dipartimento di informatica dell’Università di Stanford negli Usa, uno dei primi a nascere ed uno dei migliori al mondo: «Le acquisizioni più valide nell’educazione scientifica e tecnologica sono quegli strumenti mentali di tipo generale che rimangono utili per tutta la vita. Ritengo che il linguaggio naturale e la matematica siano i due strumenti più importanti in questo senso, e l’informatica sia il terzo.» (p.456).
  2. Far risolvere problemi: Un errore fondamentale è descrivere il pensiero computazionale unicamente come la competenza che permette di risolvere problemi (problem solving). Se così fosse non sarebbe diverso dalle competenze di tipo logico-matematico. I matematici hanno risolto problemi per millenni. Ma solo quando hanno iniziato a riflettere sulla possibilità e sulle implicazioni di “far risolvere” i problemi a qualcun altro, si è messa in moto un’evoluzione che ha portato alla nascita della nuova disciplina scientifica, l’informatica. Correlata a questa semplificazione vi è quella di ritenere che l’essenza del pensiero computazionale sia decomporre il problema in sotto-problemi, per poi ricombinarli. Ma molte volte non è richiesto questo approccio, che non è caratterizzante per il pensiero computazionale.
  3. Ad un agente: Il termine “agente” indica chi esegue le istruzioni e ne mette in rilievo il suo essere distinto rispetto al soggetto in cui avviene il processo mentale. Anche questo è un elemento essenziale per caratterizzare appropriatamente l’informatica rispetto alla matematica da cui è nata. Chi specifica la soluzione di un problema nell’ambito della matematica è generalmente anche colui che la esegue. Nell’informatica la specifica della soluzione prevede necessariamente un esecutore – esterno e diverso dal risolutore – le cui capacità operative sono rigidamente e meccanicamente predefinite. Sottolineo che l’agente agisce sui dati che acquisisce per produrre dati come risultato della sua azione. Si tratta quindi di un agente in grado di elaborare informazione (information processing agent). È proprio questo approccio che costituisce il valore metodologico e interdisciplinare dell’informatica, perché consente di ottenere un punto di vista sul mondo in grado di complementare la descrizione che sono in grado di farne gli altri tre dominî della scienza. La bioinformatica offre in questo momento l’esempio più noto di tale vantaggio, ma tutte le discipline, anche quelle non scientifiche come l’arte [E. Nardelli: A viewpoint on the Computing-Art dialogue, Leonardo, 2014], sono in grado di trarne giovamento.
  4. Sia esso persona o macchina: È una rigidità inutile ritenere che il pensiero computazionale serva solo per gestire macchine, cioè computer. Istruire una squadra di collaboratori a risolvere un problema richiede almeno le stesse capacità cognitive allenate dal pensiero computazionale: questo costituisce uno dei suoi apporti formativi che lo rendono estremamente utile per l’istruzione moderna. Ho già discusso sull’importanza di questa formazione per lo sviluppo delle capacità cognitive razionali, che deve accompagnare e NON sostituire altre discipline, egualmente importanti per un’equilibrata e completa maturazione degli studenti. Poi ne servono ovviamente molte altre: cognitive, emozionali e relazionali.
  5. Fornendogli una serie di istruzioni: Vuol dire scrivere un programma, cioè codice informatico (cioè, fare coding). Ritenere che il pensiero computazionale sia finalizzato ad imparare a programmare (cioè sia il coding) è una semplificazione snaturante perché scrivere un programma informatico vuol dire niente altro che dare concretezza al processo mentale retrostante. Da questo punto di vista sussiste, tra pensiero computazionale e coding, un po’ la stessa relazione che esiste tra pensiero e linguaggio: quest’ultimo è la forma mediante cui rendiamo concreto il pensiero, cioè ne costituisce una rappresentazione, così come un programma (il codice informatico) costituisce una rappresentazione del pensiero computazionale. Ritenere che l’obiettivo primario della formazione al pensiero computazionale nelle scuole sia scrivere codice è come pensare che quello dell’insegnamento della matematica sia imparare a fare i calcoli.
  6. Che deve eseguire in autonomia: L’ultimo elemento, da non trascurare, è l’autonomia dell’esecutore rispetto al soggetto in cui il processo mentale avviene. Nel caso si tratti di un agente “umano”, il programma che costituisce la rappresentazione di quel pensiero computazionale che ha specificato la soluzione del problema può, in una certa misura, contare sull’intelligenza dell’esecutore. Nel caso di un agente “meccanico”, cioè di una macchina qual è un computer, non possiamo far leva su alcuna intelligenza (nel senso umano del termine) e dobbiamo quindi esplicitare ogni più piccolo dettaglio. L’allenamento fatto in questo modo da studenti sarà utile nel lavoro che sarà svolto come adulti, quando gli esecutori cui daremo istruzioni saranno persone in grado di colmare le eventuali lacune.


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Una sintetica versione preliminare di questo articolo è stata pubblicata in due parti sul "Il Fatto Quotidiano" il 30 novembre 2016 e il 2 gennaio 2017.

Ringrazio i lettori che con i loro commenti alle versioni preliminari hanno contribuito a estendere e migliorare la presentazione.

mercoledì 2 novembre 2016

Smart working, più agilità, meno fisicità


di Isabella Corradini

Una volta si parlava di telelavoro. Oggi si parla di smart working, modalità lavorativa cosiddetta "agile" che trova fondamento su due parole chiave: flessibilità e tecnologia. La riorganizzazione del lavoro mediante l'impiego delle tecnologie è tesa a favorire, da un lato, la riduzione dei costi fissi per l'azienda, e dall'altro una maggiore possibilità di conciliare tempi di lavoro con quelli privati.
Allo stato attuale le tecnologie permettono il superamento di qualsiasi barriera fisica e temporale, favorendo modalità lavorative sempre più innovative. Si pensi, ad esempio, alle teleconferenze via Internet, una pratica ormai costante per aziende e professionisti.

Lo smart working è oggi una realtà in graduale crescita. Secondo uno studio della School of Management del Politecnico di Milano, nel 2015 il 17% delle grandi imprese italiane ha sperimentato progetti di smart working.


Uno studio realizzato da Vodafone, Flexible Work: Friend or Foe?,ha esaminato l'applicazione del lavoro flessibile nelle imprese e la percezione dei lavoratori, coinvolgendo una popolazione di 8.000 individui in 10 paesi. Dalla ricerca emerge che il 75% delle aziende ha introdotto politiche di lavoro flessibile, mettendo in luce differenze significative sia per ciò che attiene gli approcci seguiti dai diversi paesi, sia differenze generazionali.


Secondo una classifica stilata da Flexjobs, un sito specializzato nell'offerta di opportunità lavorative da remoto, in una lista delle migliori 100 aziende dedite alle modalità di lavoro flessibile, ad aggiudicarsi le prime tre posizioni sarebbero LiveOps, Teletech e Amazon.


Lo smart working costituisce senza dubbio un approccio interessante, e probabilmente adatto alle attuali esigenze organizzative. Tuttavia ogni cambiamento della realtà lavorativa, in quanto tale, richiede necessariamente un accompagnamento culturale. Se, infatti, alcune realtà hanno già sperimentato (o sono pronte a sperimentare) progetti di smart working, altre sono ancora poco sensibili ad abbandonare il concetto di "fisicità" del lavoro. Senza contare che la scarsa confidenza con i dispositivi tecnologici rappresenta ancora un ostacolo da superare per poter attivare il lavoro flessibile.

C'è inoltre da considerare l'elemento umano, a proposito del quale alcune riflessioni sono doverose. Di certo la gestione in proprio degli orari lavorativi costituisce un vantaggio, così come il risparmio di tempo trascorso su mezzi di trasporto per il raggiungimento del proprio luogo di lavoro. Conciliare vita privata e lavorativa costituisce, infatti, un obiettivo irrinunciabile. Al contempo è però necessario adattarsi ad un nuovo concetto di postazione lavorativa caratterizzata da spazi sempre più aperti, senza assegnazioni fisse, riduzione all'osso dei documenti cartacei, utilizzo di dispositivi di dimensioni limitate, pochi contenitori per gli oggetti personali.

Si tratta di un ambiente di lavoro meno fisico, ottimizzato nell'uso per l'azienda, ma certamente più anonimo per l'individuo. Non si può, quindi, fare a meno di pensare ad una "spersonalizzazione" degli spazi di lavoro che, vissuti quotidianamente, tendono generalmente a produrre una percezione di familiarità e di sicurezza, stimolando una sorta di identificazione con il contesto e il sentimento di appartenenza. Inoltre, per quanto utili siano le modalità comunicative come chat aziendali e collegamenti da remoto, non vi è certezza che esse siano in grado di sviluppare il senso di squadra, almeno come ci si è abituati a pensarlo fino ad oggi.

La ricerca sul campo nei prossimi anni a venire potrà svelarci vantaggi e svantaggi dello smart working che indubbiamente rappresenta una sfida, culturale prima ancora che organizzativa.

Pubblicato su Bancaforte il 13.10.2016

sabato 20 agosto 2016

Una poesia come password

 di Isabella Corradini

Regola fondamentale per la protezione dei propri account è la scelta di password “complicate” per evitare che siano facilmente scoperte. Ma le cose non sono così semplici quando si tratta di metterle in pratica.

Finchè si aveva un solo account, ci si poteva cimentare nella ricerca di qualcosa di originale e, forse, sicuro. Ma considerato il numero sempre più elevato di account personali e aziendali di cui si dispone oggi, la creazione (e il ricordo) di password cosiddette robuste è diventato parte del lavoro quotidiano: dal conto on line ai profili social, al pagamento di una bolletta, si può dire che è “tutta una password”. E, ovviamente, sempre per questioni di sicurezza, è altamente sconsigliabile utilizzare la stessa password per i vari account. Così come sono bandite password che fanno riferimento a date di nascita, nomi di familiari, di animali, ecc.

L’elenco di ciò che è sconsigliabile è piuttosto lungo. Ma ricordare è un lavoro, e si sa che gli esseri umani per loro natura tendono a risparmiare energie (anche cognitive): poiché di fronte ad esigenze che richiedono risorse personali si tende a scegliere la strada meno impegnativa e la percezione dominante è che “a me tanto non capita”, va da sé che spesso le persone optano per la scelta di password più facili da ricordare ma certamente meno sicure.
In proposito vale la pena ricordare il report della società americana di sicurezza informatica SplashData che, nell’elenco delle 25 password più comuni del 2015, quella più diffusa era (ancora!) “123456”, seguita da “password".

Ma esiste un modo per scegliere una password che, di senso compiuto o meno, possa ritenersi sicura e facile da ricordare?

Due ricercatori della University of Southern California, Ghazvininejad e Knight, hanno analizzato i diversi metodi di costruzione delle password e proposto, al convegno di linguistica computazionale NAACL di giugno 2015, una soluzione insolita ma più efficace di altre: è possibile creare delle password robuste ricorrendo a brevi poesie. Per essere ricordate devono essere in rima e per resistere agli attacchi non devono essere componimenti noti. I due studiosi hanno realizzato  un generatore casuale (da usare solo a scopo dimostrativo!) di password costruite in questo modo ed i loro esperimenti evidenziano che tali password si ricordano più facilmente e sono meno attaccabili.

Di solito per creare password occorre rispettare alcune regole che includono la lunghezza di almeno 8 caratteri, l’aggiunta di almeno un carattere maiuscolo, un numero, caratteri speciali, e via dicendo. Ma così facendo le password sono difficili da ricordare per un essere umano, mentre non diventano più resistenti agli attacchi di software malevolo.

D’altro canto, per secoli gli esseri umani hanno fatto ricorso alla poesia per ricordare le cose. E se invece dei caratteri si usassero le parole? Forse in questo modo le persone potrebbero anche riscoprire l’amore per la poesia.

Pubblicato su Bancaforte il 15.01.2016 - è stato aggiunto un aggiornamento sul report di SplashData

martedì 5 luglio 2016

Social network, oltre il ragionevole rischio

Isabella Corradini

Siamo in un momento storico in cui sui social network viene pubblicato di tutto, persino lo scandire dettagliato di cosa si fa durante la giornata quotidiana, con tanto di foto di pranzi e cene consumate, gite, feste, solo per fare qualche esempio, e valanghe di commenti a seguire. Certamente le opportunità offerte dall’uso di smartphone hanno favorito un modo nuovo di parlare di sé e del proprio mondo.

Quello su cui è interessante riflettere è come l’uso dei social possa spingersi anche oltre il “ragionevole rischio”. È davvero così importante condividere sui social la propria carta di imbarco? Chi mai potrebbe essere interessato? Di certo chi è a caccia di dati e che può recuperarne diversi, ad esempio mediante il codice a barre che identifica il biglietto aereo.
Eppure, si continuano a condividere le informazioni più disparate, per motivi diversi: sentirsi parte di qualcosa, per amicizia, per amore, per connettersi alle persone con cui ci si può confrontare con interessi e passioni simili. Mediante i canali social la voglia di esprimere le proprie emozioni avviene in modo rapido, riuscendo a raggiungere una moltitudine di persone.

Tuttavia, complice l’entusiasmo e la gioia di far partecipi gli altri di esperienze più o meno intense emotivamente, la condivisione rischia di produrre conseguenze spiacevoli. Si pensi a quelle coppie di genitori che per la gioia condividono in modo eccessivo foto e informazioni sui propri figli. Si tratterebbe di una vera e propria moda alla quale è stato dato il nome di “sharenting”. Come purtroppo, accade, questa voglia di condividere può essere sfruttata da malintenzionati e, dunque, costituire una minaccia per la privacy e la sicurezza dei minori.

Molteplici possono essere gli esempi e i fatti in cui un semplice gesto di condivisione dettato dall’emozione può diventare qualcosa di spiacevole. È il caso, ad esempio, di una donna inglese che, tramite il suo blog, ha pensato di condividere tutte le tappe della gravidanza per poi scoprire, con un certo disappunto, che una sua foto col pancione è diventata virale in un video porno (leggi l’articolo del Messaggero).

A questo punto la domanda nasce spontanea, come direbbe qualcuno: le persone sono ancora scarsamente consapevoli dei rischi? Oppure, ne sono consapevoli ma il desiderio di testimoniare la propria presenza nel mondo reale sfruttando il virtuale è tale da indurre anche a rischiare?

Probabilmente entrambe le opzioni sono valide. È un dato di fatto che nel mondo dei social le persone si muovono, si incontrano, si raccontano, in modo altrettanto significativo di quello reale. Così come nell’epoca pre Internet le persone ambivano a 15 minuti di celebrità, ora colgono le opportunità offerte dai social network per tentare di lasciare il segno.

Anche sfidando il ragionevole rischio.


Pubblicato su Bancaforte il 20 giugno 2016

mercoledì 29 giugno 2016

Informatica: il nuovo latino che tutti amano

di Enrico Nardelli

Chiarisco subito che, pur essendo laureato in ingegneria, ho studiato al classico conservando un profondo amore per le culture latina e greca, che ritengo alla base della nostra civiltà. Non proporrò quindi di sostituire lo studio del latino con quello dell’informatica, né di diminuire la formazione umanistica nella nostra scuola. Tutt’altro.

Parto dalla dichiarazione che la Ministra Stefania Giannini aveva rilasciato in occasione dell’avvio del secondo anno di Programma il Futuro: “Il coding non è un’attività per informatici, ma una competenza trasversale che, come per le competenze linguistiche, è fondamentale acquisire fin dai primi anni di studio. Il coding è una nuova lingua, una lingua computazionale, e impararla è un modo straordinario per entrare nel mondo con il piede giusto. La scuola deve essere protagonista nella diffusione di queste nuove esperienze”.

Collego a queste considerazioni alcune riflessioni di un grande matematico francese, Cédric Villani, recentemente vincitore della Medaglia Fields, considerata il premio Nobel per la Matematica, anche lui un convinto sostenitore dell’importanza di insegnare l’informatica nelle scuole. In alcune sue recenti dichiarazioni egli confronta il linguaggio della programmazione e gli altri linguaggi. Villani accosta il linguaggio della programmazione a quello della matematica, come “lingue che aiutano l’uomo nella sua battaglia per la comprensione del mondo” e le distingue dalle lingue come l’inglese o il tedesco “che servono nella comunicazione tra le persone”.

Parla poi delle lingue come il latino che si imparano attraverso le regole (invece che attraverso il dialogo) per sottolineare come il loro valore formativo risieda “nella disciplina mentale che bisogna avere, nella ginnastica intellettuale che costringe ad integrare i vari insiemi di regole, combinazioni e configurazioni”. Questo esercizio, continua, è benefico per i nostri circuiti neuronali esattamente come quello praticato nello studio della matematica o nell’esercizio del “pensiero computazionale”. Questo termine è quello che usiamo quando vogliamo sottolineare gli aspetti culturali dell’informatica, indipendentemente dalla tecnologia digitale in cui essa si manifesta ormai dovunque intorno a noi. Ne ho recentemente discusso un esempio pratico.

Villani sottolinea poi un ulteriore vantaggio educativo che ha l’informatica: “È praticamente la sola disciplina che permette agli studenti di correggersi da soli”. Diversamente da altri linguaggi, nei quali in assenza di una correzione da parte del docente è facile perseverare nell’errore, un programma informatico che non raggiunge il suo obiettivo manifesta immediatamente il suo fallimento. Anche se questa osservazione non va considerata in modo assoluto (dal momento che – come accade in molti altri contesti – si può raggiungere l’obiettivo desiderato anche con un metodo scorretto) certamente il fatto che, nel corso del processo di apprendimento si possano insegnare i concetti fondamentali del pensiero computazionale mediante attività didattiche che segnalano subito allo studente se sta procedendo o meno in modo corretto, è estremamente utile.

E, aggiungo io, è ugualmente vantaggioso in termini di coinvolgimento degli studenti che quest’apprendimento possa avvenire in modo visibile e costruttivo, muovendo un personaggio sullo schermo o un robottino sul pavimento della classe o – come accade nelle versioni non tecnologiche delle nostre attività didattiche – guidando un compagno ad attraversare un labirinto.

Proprio questa capacità di feedback immediato è uno dei motivi dell’attrazione dei più giovani, che li ha indotti a partecipare numerosi al concorso Codi-Amo, una competizione basata sul pensiero computazionale e su come esercitarlo e formarlo. Quasi 800 scuole e 1.200 docenti hanno lavorato tra marzo ed aprile (mesi generalmente molto impegnativi nelle scuole) per inviare quasi 2.000 elaborati (con una mobilitazione quindi di circa 40.000 studenti) nei quali hanno realizzato storie, giochi e grafica utilizzando la programmazione informatica.

Nel corso dell’evento di chiusura del secondo anno di Programma il Futuro sono stati premiati i 34 vincitori delle risorse messe a disposizione dai partner dell’iniziativa, ed assegnate numerose menzioni d’onore e di merito a classi, istituti e docenti che si sono particolarmente distinti per qualità ed impegno.

È stato anche il momento di tirare le somme della partecipazione al progetto: raggiunto e superato il milione di studenti che la Ministra aveva auspicato all’apertura del secondo anno, ogni altro indicatore numerico segnala un risultato estremamente lusinghiero, a riprova del grande interesse di insegnanti e studenti agli aspetti culturali della programmazione informatica.


Vale la pena sottolineare che questi numeri corrispondono a quasi il 15% del sistema scolastico italiano. Riprendendo i termini introdotti da Everett Rogers per descrivere la diffusione delle innovazioni, è interessante quindi osservare che la propagazione del pensiero computazionale nelle scuole ha di fatto quasi superato sia la fase degli innovatori (i primissimi che si avventurano nell’usare le novità) che quella dei pionieri (la seconda ondata che colonizza le nuove terre).

Considerando che l’adesione al progetto è lasciata alla libera scelta delle scuole vuol dire che i nostri docenti sono in grado di reagire positivamente a stimoli culturalmente interessanti e che, forse, per i nostri studenti l’informatica può essere una disciplina più amata di latino e matematica per sviluppare le capacità cognitive razionali.

Speriamo allora con il prossimo anno di riuscire ad arrivare al coinvolgimento della cosiddetta maggioranza anticipatrice, per trasformare quest’innovazione in un fenomeno di massa che possa contribuire ad un migliore futuro per l’Italia.

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Pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 21 giugno2016.

sabato 4 giugno 2016

Awareness nella cybersecurity

di Isabella Corradini


Per parlare di awareness nell’ambito della cybersecurity bisogna partire da un principio fondamentale: si tratta innanzitutto di un tema che non riguarda pochi eletti o solo gli specialisti della sicurezza. La cybersecurity riguarda da vicino tutti i cittadini, utilizzatori quotidiani delle tecnologie dell’informazione. Per questo la sicurezza delle informazioni e della Rete non può essere delegata solo a chi, per lavoro, si occupa di strategie di difesa.

D’altro canto, sia a livello europeo che italiano, sempre più si sottolinea l’importanza del ruolo della sensibilizzazione e della formazione su queste tematiche.
Il Piano Nazionale per la protezione cibernetica e la sicurezza informatica del 2013 individua gli indirizzi operativi e le linee d'azione per dare concreta attuazione al Quadro strategico Nazionale per la sicurezza dello spazio cibernetico. E' necessario, infatti, sviluppare le capacità di risposta del Paese alle minacce cibernetiche, in continua evoluzione.

Le risposte, pur nella loro complessità, debbono essere tra loro integrate, se si vogliono ottenere risultati efficaci. Si va dall’attenzione al singolo cittadino, alla cooperazione tra il settore pubblico e privato, alla comunicazione strategica, alla formazione e addestramento.

Il punto della formazione appare di particolare rilevanza in quanto il fattore umano continua ad essere il punto debole della sicurezza (pur potendone costituire il punto di forza), ed è su questo che bisogna investire in modo determinante. Non è un caso che, di qualsiasi tipo di sicurezza parliamo, le misure perdono efficacia se non si presta attenzione anche alle persone che quotidianamente ne fanno uso, contribuendo in modo attivo alla costruzione della sicurezza.

Ma come agire sul fattore umano? E, soprattutto, con quali modalità?

Prima di tutto l'intervento deve andare nella giusta direzione: sviluppare cultura della sicurezza in ambito informatico non può consistere nella sola erogazione di corsi formativi, se l'obiettivo che ci si prefigge è quello di raggiungere una consapevolezza dei rischi cyber e della propria capacità di prevenirli e/o di gestirli.

Nella pratica quotidiana assistiamo all’utilizzo di parole sicuramente attrattive dal punto di vista tecnico, come quella di awareness, ma che poi devono tradursi in efficaci programmi di informazione, formazione e addestramento.

La consapevolezza, infatti, va ben oltre la conoscenza: possiamo conoscere, ma non per questo essere consapevoli. E’ necessario integrare conoscenza ed esperienza. Attraverso metodologie interattive, case analysis, role playing, simulazioni, è possibile, ad esempio, far comprendere gli impatti di un attacco informatico, di una perdita di dati. E, nel contempo, l'importanza del proprio comportamento per la prevenzione.

Nella progettazione di questi interventi didattici è altrettanto necessario coinvolgere figure professionali con esperienza soprattutto nel campo delle metodologie formative. Pena la perdita dell’efficacia di questo tipo di formazione.
Va da sé che l’efficacia delle attività formative e informative si raggiunge solo se si adottano criteri di qualità: adeguata progettazione degli interventi, metodologie appropriate in funzione degli obiettivi, selezione di docenti qualificati.

L’awareness si costruisce con e sul fattore umano.



Estratto rielaborato dalla rivista ICT Security: Le buone pratiche nella cybersecurity, ICT Security.

giovedì 19 maggio 2016

La RAI che vorrei: diffondere la “conoscenza in azione ” per far crescere l’Italia

di Enrico Nardelli

Ho apprezzato molto, nell’intervento di Stefano Cuppi pubblicato nell'ambito del dibattito "La RAI che vorrei", la lucidità di visione sul ruolo della RAI in relazione al multimediale. Egli infatti auspica “Eppure il Maestro Manzi oggi farebbe questo, lavorerebbe per abbattere l’analfabetismo digitale che incombe nel nostro paese. Il servizio pubblico multimediale dovrebbe svilupparsi in questa direzione: educare, divertire ed informare, anche mettendo a disposizione dei ragazzi e delle scuole il grande patrimonio digitale delle proprie teche, insegnare loro a manipolare i contenuti digitali degli archivi, spingere le nuove generazioni verso la conoscenza dei linguaggi di programmazione, incentivare la produzione di algoritmi per la fruizione e lo scambio di informazioni e contenuti.

Come professore universitario di informatica ed osservatore privilegiato del progetto MIUR “Programma il Futuro”, che proprio Cuppi cita come esempio di un’alfabetizzazione in cui la RAI dovrebbe essere coinvolta (lo coordino per conto del soggetto attuatore CINI – Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica, insieme al collega Giorgio Ventre) vorrei svolgere alcune considerazioni per rilanciare ed estendere quanto sopra citato.

Le tecnologie digitali negli ultimi venti anni hanno invaso la società come conseguenza della rivoluzione informatica, che sintetizza ed integra due delle maggiori rivoluzioni del passato, quella della stampa e quella industriale. Ne ho parlato più estesamente su questa pagina.

I cambiamenti che la rivoluzione informatica ha messo in moto nel corso del Novecento sono di portata ancora maggiore delle precedenti, perché si tratta di una rivoluzione che incide sul piano cognitivo. Essa sarà probabilmente ancora più incisiva delle altre due, dal momento che offre la possibilità di replicare non più soltanto la conoscenza statica dei libri e la forza fisica di persone e animali, ma quella “conoscenza in azione ” che è il vero motore dello sviluppo e del progresso.

Col termine “conoscenza in azione ” intendo quel sapere che non è soltanto una rappresentazione statica di fatti e relazioni ma un processo dinamico e interattivo di elaborazione e di scambio dati tra soggetto e realtà. Grazie alla rivoluzione informatica, questa “conoscenza in azione ” – un tempo limitata al “maestro” che la possedeva – viene riprodotta e diffusa sotto forma di programmi software, che possono poi essere adattati, combinati e modificati a seconda di specifiche esigenze locali. Gli sviluppi di questa rivoluzione sono ancora più impetuosi di quelli scatenati dalle due precedenti, come dimostrano ciò che accade nel settore del “free software” e il continuo fiorire di società start-up focalizzate sull’informatica.

Giustamente Cuppi ha ripreso nel suo intervento le affermazioni di Michele Mezza, che ha sottolineato l’importanza del ruolo del software, ormai onnipresente nella selezione e promozione delle notizie. In particolare, una frase è centrale per quanto dirò nel seguito: “La BBC produce almeno il 50% degli algoritmi che adotta in casa. … Un servizio pubblico audiovisivo non è dato se non ha pieno controllo dei propri linguaggi.

La società contemporanea, grazie all’automazione di molti aspetti informativo-cognitivi del lavoro umano, si sta trasformando in una “società dei servizi ”, che sarebbero impensabili senza le tecnologie digitali. Ma questa meccanizzazione pone diverse problematiche. In estrema sintesi: non basta produrre software, è essenziale gestirne l’evoluzione. Questo vuol dire che è cruciale capire che i sistemi software – in misura largamente maggiore rispetto ad ogni altro sistema costruito dall’uomo – sono sistemi in continuo adattamento, per il quale il ruolo dell’essere umano continua ad essere essenziale. Ciò è vero nonostante gli impressionanti avanzamenti dell’intelligenza artificiale e fintanto che vogliamo che continui ad esistere una società di persone e non di macchine. Per chi volesse approfondire, ecco il testo dell'intervento, discusso nel convegno di Informatics Europe del 2010.

Inoltre, non è sufficiente produrre algoritmi in casa.

Bisogna far sì che si diffonda nell’intero Paese quella cultura di base che rende poi possibile formare chi scrive quegli algoritmi. I quali sono di importanza strategica sia per l’attuale sistema delle comunicazioni che per tutti gli altri sistemi informatici che sempre di più pervadono la nostra società.

Non si tratta quindi di diffondere il patrimonio digitale solo degli archivi RAI, ma quello di un’intera nazione, che custodisce nelle proprie biblioteche e musei un patrimonio ineguagliato da ogni altra. Non si tratta di incentivare solo la conoscenza di linguaggi di programmazione, ma di far sì che ogni persona sia in grado di rendere fruibile a tutta la comunità la propria “conoscenza in azione. Provate a pensare all’effetto di moltiplicazione esplosiva che avrebbe avuto nel Rinascimento italiano la disponibilità di una tecnologia per la comunicazione e la diffusione dell’informazione quale quella che vediamo adesso.

È necessario diffondere in tutta la società una vera comprensione delle fondamenta culturali e scientifiche delle tecnologie digitali. Altrimenti rischiamo - soprattutto in Italia - di essere consumatori passivi ed ignari di tali servizi e tecnologie, invece che soggetti consapevoli di tutti gli aspetti in gioco ed attori attivamente partecipi del loro sviluppo.

La formazione su questi aspetti fondamentali, che nel nostro progetto denominiamo “pensiero computazionale”, riprendendo un termine introdotto da Seymour Papert e popolarizzato da Jeannette Wing, è altrettanto importante, nella società contemporanea, di quella svolta nel corso del secolo passato sulla matematica, fisica, biologia e chimica. Esse sono state introdotte nel secolo scorso come materie obbligatorie nella scuola secondaria, con un’introduzione ad esse effettuata nella primaria, non per far diventare tutti gli studenti dei matematici, fisici, biologi o chimici, ma perché la formazione su queste discipline era un fattore chiave per lo sviluppo della moderna società industriale.

Il progetto “Programma il Futuro” ha portato questo tipo di formazione nelle scuole italiane, come sperimentazione inquadrata nelle iniziative de “La Buona Scuola”. In un anno e mezzo il responso è stato entusiasmante, nonostante la scelta di aderire sia stata lasciata all’autonomia didattica dei docenti e non siano stati assegnati fondi ad hoc alle scuole. Nell’anno scorso 300.000 studenti coinvolti, fino a gennaio di quest’anno già più di 600.000. Nel Piano Nazionale Scuola Digitale, rilasciato ad ottobre scorso, è stato inserito l’obiettivo di far svolgere a tutti gli studenti delle scuole elementari 10 ore l’anno di pensiero logico-computazionale. Obiettivo ambizioso, ma fondamentale per la crescita culturale (ed anche economica – per quanto prima detto) dell’Italia.

È certamente auspicabile che anche la RAI dia il suo contributo. D’altro canto, proprio le nuove tecnologie didattiche rendono possibile sviluppare la formazione in modi che ne consentono la replicabilità e la diffusione in numeri irraggiungibili con approcci tradizionali.

Nel nostro progetto siamo partiti dal materiale didattico che ha realizzato Code.org negli USA, ovvero l’iniziativa “Hour of Code” che ha fatto programmare il primo presidente USA della storia e condotto in 3 anni 200 milioni di studenti in tutto il mondo ad avvicinarsi all’informatica. Adattando questo materiale all’Italia e fornendo un servizio di supporto siamo riusciti a far arrivare questi primi “semi” di formazione al pensiero computazionale a quasi un milione di studenti. Se un partner tipo la RAI si facesse ispirare, come Cuppi e Mezza hanno ricordato, dall’esempio della BBC ma lavorasse sul software invece che sull’hardware basterebbe meno di un decimo di quanto ha speso l'azienda del Regno Unito per estendere il progetto a tutti gli insegnanti ed a tutte le scuole italiane.

Il pensiero computazionale ha il grande vantaggio di poter essere insegnato molto efficacemente mediante la tecnologia digitale. Bisognerebbe sfruttare questa caratteristica per inserire nella scuola, risolvendo i vincoli organizzativi, la formazione su aspetti essenziali per lo sviluppo di cittadini in grado di comprendere bene la complessa società contemporanea.

Per quanto riguarda il pensiero computazionale, nelle primarie è relativamente più facile inserirlo, nelle secondarie inferiori potrebbe trovare uno spazio nell’area delle tecnologie, nelle superiori c’è pochissima flessibilità. Ma, ripeto, con le nuove tecnologie una parte delle lezioni che tradizionalmente svolge il professore in aula potrebbero essere realizzate dagli studenti in autonomia, lasciando alla classe il momento della discussione, del confronto e della verifica. Nel nostro progetto , un corso MOOC di formazione per gli insegnanti, realizzato dal collega Alessandro Bogliolo, ha avuto migliaia di insegnanti al seguito. I nostri video didattici sul canale YouTube viaggiano ormai sulle quasi 10.000 visualizzazioni al mese, avendo già superato le 100.000 in totale.

A pensarci bene, di uno sforzo di questo genere non ne beneficerebbe solo la scuola e la RAI del futuro. Chiunque che volesse avere una riqualificazione professionale (e l’informatica continua ad essere uno dei mestieri con le maggiori possibilità occupazionali ed i migliori livelli salariali), a qualunque età, potrebbe accedere ad un tale programma di formazione. Avete pensate al patrimonio di conoscenza e di esperienza che vi è in una popolazione magari non anziana, ma semplicemente matura, espulsa brutalmente dal mercato del lavoro e che potrebbe, grazie ad una tecnologia che non è limitata dai vincoli della materialità, ritrovare un suo spazio lavorativo, ritrovare speranze e re-infondere senso nella propria vita?

Si dovrebbe fare.

Si può fare.

Il MIUR ha un piano, il CINI ha le braccia. Se la RAI ci mettesse la voglia, l’Italia farebbe un eccellente investimento per il suo futuro.

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Pubblicato su key4biz il 13 aprile 2016.

martedì 3 maggio 2016

Il cyber è più reale che mai

di Isabella Corradini

Siamo talmente abituati ad usare termini come “realtà virtuale” e prefissi come "cyber" in ogni situazione, che non ci rendiamo conto di come quest'uso possa influenzare i comportamenti e la loro percezione.

Sappiamo di cosa parliamo quando usiamo il termine "realtà virtuale"? Secondo la definizione essa rappresenta la simulazione di una situazione reale con il quale il soggetto umano può interagire. Quindi, il virtuale come simulazione del reale.

La Rete, invece, non è una simulazione al di fuori di noi ma parte integrante del nostro vivere quotidiano. Anzi, l'impressione è che questa cosiddetta realtà virtuale abbia ormai fagocitato quella reale. Consultiamo quotidianamente la Rete per tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno, dalla ricerca di un dettaglio ad una prenotazione di viaggio. Ci connettiamo con il nostro mondo sociale, noi stessi veniamo contattati da altre persone mediante mail, social network, e via dicendo. Gli effetti di questo straordinario connettore che è Internet sono dunque assolutamente reali e tangibili.

L’osservazione iniziale nasce quindi dalla considerazione che un uso non appropriato della terminologia può avere un forte impatto sulla percezione dei comportamenti umani.

Ovvero, il fatto di dire "tanto è virtuale" può favorire comportamenti superficiali o negativi, nei quali la valutazione delle conseguenze non è ponderata rispetto agli effetti reali.
Si pensi, ad esempio, al fenomeno del cyber bullismo, ovvero quella forma di bullismo elettronico che mediante i dispositivi tecnologici di comunicazione, dai cellulari ai social network, replica comportamenti aggressivi e prevaricatori nei confronti di soggetti più deboli.
Di certo la mediazione operata dalle tecnologie dell’informazione favorisce la disinibizione del comportamento, dal momento che chi agisce pensa che a compiere l'atto concreto sia lo strumento tecnologico, deresponsabilizzandosi dunque rispetto all'accaduto.
Ma a ben vedere l'intenzione di prevaricare sull'altro c'è, anche se espressa con una differente modalità. Che peraltro è devastante, in quanto amplifica la conoscenza del fatto, estendendola via web ad una moltitudine di persone, invisibili, ma anch’esse esseri viventi.

E si sa che quando la vittima è reale, le inibizioni sono più forti e il passaggio all’atto (acting out) diventa più difficile. Nel nostro caso, invece, l’intermediazione tecnologica inserisce una distanza fisica che produce distacco emotivo ed una minore responsabilizzazione, rendendo l’azione più facile da compiere. Ma anche se si pensa che l'atto sia compiuto in un contesto virtuale, la vittima è comunque "reale" così come lo sono le conseguenze prodotte, in alcuni casi purtroppo estreme.

Lo stesso prefisso cyber viene ormai impiegato per ogni cosa. Anche per descrivere condotte criminose di varia natura (e già note), come il cyber stalking, il cyber terrorismo, il cyber spionaggio, solo per fare un esempio. Tuttavia, occorre cautela: usando il prefisso cyber si rischia, infatti, di portare l'attenzione solo sull'aspetto tecnologico della questione, e di trascurare quello umano. E si sa che in una condotta criminosa (ma anche nel comportamento umano in generale) la motivazione e la volontà sono elementi di comprensione assai rilevanti.

L'elemento tecnologico favorisce l'esecuzione ma bisogna considerare che dietro c'è sempre chi elabora strategie, chi esegue e chi ne subisce le conseguenze. E non si tratta di una “retrovia” del comportamento criminale, ma di una parte importante dell’azione stessa.

Senza contare che virtuale e cyber vengono spesso usati come sinonimi nel linguaggio comune, rafforzando una percezione di distacco rispetto al reale.

Ma il cyber è più reale che mai.

Pubblicato su Bancaforte il 14 aprile 2016.

giovedì 28 aprile 2016

5 parole chiave del pensiero computazionale

di Enrico Nardelli

Il termine "pensiero computazionale", dopo essere stato ufficialmente accettato nel mondo giuridico con la pubblicazione della legge 107/2015 ("La Buona Scuola") è entrato anche nella pratica didattica col Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), che ha riconosciuto attività di questo tipo come essenziali per la formazione degli studenti nell'era digitale. In particolare, l'Azione 17 del PNSD si propone di condurre ogni studente, nel corso dei prossimi tre anni, a svolgere 10 ore annuali di educazione al pensiero logico-computazionale.

Si tratta quindi di un termine sempre più conosciuto, come testimonia il grafico della sua diffusione fornito da Google Trends.


Diverse volte però mi accade di ricevere richieste di chiarificazioni del concetto, che tutti intuitivamente comprendono ha a che fare con la logica, il ragionamento e la risoluzione dei problemi, ma che non tutti sempre riescono a mettere esattamente a fuoco.

Alle volte è anche capitato che qualcuno si sia spaventato per l'espressione, temendo che si vogliano trasformare gli studenti in automi. Si tratta di paure che derivano dall'aver semplicemente sentito il termine, senza averlo approfondito. L'espressione, coniata da Seymour Papert e popolarizzata da Jeannette Wing, è al centro dell'attività di Programma il Futuro. Ho già spiegato le ragioni per cui non bisogna temere il pensiero computazionale.

Nella realtà, infatti, è tutt'altro che una meccanizzazione delle persone. È viceversa un mezzo essenziale per sviluppare il pensiero critico, di cui la società, con l'incremento di complessità derivante proprio dalla pervasività delle tecnologie dell'informazione, ha sempre più bisogno. Gli oltre 13.000 insegnanti sinora coinvolti in Programma il Futuro l'hanno capito benissimo. Ecco cosa hanno scritto – solo per fare un esempio – quelli che animano il Progetto Vivarium sulla loro pagina Facebook:

«Il pensiero computazionale è dunque, essenzialmente, pensiero critico; insegna cioè a non fermarsi all'apparenza dei fenomeni che incontriamo ma ci costringe a chiederci cosa ci sia 'dietro', quali processi nascosti ma fondativi producano ciò che noi liberamente e comodamente sfruttiamo. Perché un utilizzo consapevole di ciò che a noi arriva come effetto già pronto parte da un'indispensabile conoscenza delle cause.»

Dopo aver quindi partecipato in massa alle attività, il cui punto più alto si è registrato nella settimana dell'Ora del Codice di dicembre scorso, una parte degli insegnanti iscritti ha entusiasticamente guidato tra marzo e aprile quasi 40.000 studenti a partecipare al concorso Codi-Amo, una competizione basata proprio sul pensiero computazionale e su come esercitarlo e formarlo. E questo nonostante nelle scuole si tratti di mesi generalmente molto impegnativi, perché si tirano le fila del lavoro di un intero anno. I risultati del concorso saranno noti a metà maggio.

Le persone usano implicitamente il pensiero computazionale nella vita di ogni giorno. Sono poi forzate ad esplicitarlo quando devono istruire un soggetto terzo, l'esecutore, a risolvere un problema. Eccone quindi un esempio pratico, riferito ad una situazione che la maggior parte di noi conosce.

Immagina questo scenario: domani sera sei a cena fuori e devi lasciare le istruzioni a tuo figlio affinché riesca a cenare anche in tua assenza. Devi quindi risolvere un problema: far sì che tuo figlio sia in grado di cenare da solo.

Si tratta di pensiero computazionale perché devi mettere a punto una procedura affinché lui (l'esecutore) risolva il problema. Quindi non "problem solving" in prima persona ma per qualcuno che deve agire al tuo posto per risolvere un problema. In altre parole, il pensiero computazionale è un processo mentale che conduce a specificare procedure che un esecutore può realizzare autonomamente.

Nel pensiero computazionale ci sono quindi alcuni aspetti essenziali e che si influenzano reciprocamente.


Primo aspetto: quanti anni ha tuo figlio, cosa è in grado di capire, cosa è in grado di eseguire? Devi adeguare il tuo linguaggio e le tue istruzioni alle sue capacità. Sa come si cucina la pasta? Come si friggono le patate? In altre parole, la tua procedura di risoluzione deve tenere presente la "potenza computazionale" dell'esecutore.

Secondo aspetto: come gli spieghi le cose? A che livello di dettaglio si deve spingere il tuo linguaggio? Basta dire "Riempi la pentola d'acqua", oppure è necessario chiarire "Prendi la pentola grande e riempila a metà", oppure precisare "Posiziona la pentola alta 20 cm nel lavello e con i manici in alto, sposta la bocca del rubinetto cosicché stia sopra la pentola, apri la valvola dell'acqua fredda e poi chiudila quando il livello dell'acqua ha raggiunto i 10 cm", oppure etc. etc.? Pertanto la procedura di risoluzione deve considerare il "livello di astrazione" a cui opera l'esecutore, oltre alla sua potenza computazionale.

Terzo aspetto: il problema della cena può essere scomposto in sotto problemi. Ad esempio: preparare la tavola, preparare la cena, sparecchiare, ripulire. Ognuno di questi ha poi ulteriori "decomposizioni del problema" in sotto problemi (mettere la tovaglia, sistemare piatti e posate, …), fino ad arrivare a situazioni così semplici da essere risolte da un'azione elementare ("apri il rubinetto"). Chiaramente, la decomposizione ottenuta sarà dipendente sia dalla potenza computazionale che dal livello di astrazione dell'esecutore.

Quarto aspetto: le istruzioni elementari così individuate devono essere sequenziate in un ordine che faccia sì che tutto possa funzionare (non ha senso prima sistemare i piatti e poi mettere la tovaglia…). Ecco quindi l'importanza di un "algoritmo" che risolva il problema e magari lo faccia anche in modo efficiente rispetto alle risorse in gioco (per esempio, il fatto di aprire il rubinetto solo dopo aver messo la pentola nel lavello e non prima usa l'acqua in modo più efficiente). La procedura che definisci dovrà quindi esprimere l'algoritmo in funzione di ognuno dei precedenti tre aspetti.

Quinto aspetto: è importante valutare se le istruzioni che sono state scritte conducono effettivamente tuo figlio a risolvere il problema. Devi quindi metterti mentalmente nei panni dell'esecutore e "verificare la correttezza" della procedura specificata: ognuno degli elementi precedentemente discussi ritorna quindi in gioco in questa importantissima fase.

Ecco, questi sono i cinque aspetti essenziali che l'educazione al pensiero computazionale sviluppa negli studenti. Così come nessuno impara a fare le divisioni a mano perché poi nella vita davvero farà i conti con quelle ma per il loro valore formativo, allo stesso modo sviluppare queste abilità non è finalizzato a trasformare tutti gli studenti in informatici (anche se il settore è uno di quelli con le migliori prospettive occupazionali) ma a far sì che operino meglio nella società che ci aspetta.

Pubblicato su il Fatto Quotidiano il 21 aprile 2016.

domenica 17 aprile 2016

Il diario dell'ombra digitale

di Isabella Corradini

In un mondo globalmente connesso e iperattivo digitalmente, aumenta anche la presenza della cosiddetta "ombra digitale", ovvero  la scia di visibilità che una persona o una qualsiasi entità lascia in Internet e in altri ambienti digitali.

Questa scia, l'ombra appunto, può essere più o meno grande ed è evidente che più è grande, maggiore è la possibilità di identificare chi ha lasciato tale traccia.

Tale ombra accompagna la persona nel suo ciclo di vita: dalla nascita, con le foto e i video di rito che i genitori condividono con gli amici in Rete, fino alla morte. Passando ovviamente per tutte le tappe importanti della sua vita, dai percorsi di studio al lavoro, al curriculum inviato per le selezioni di lavoro, alla condivisione di interessi e campagne sui vari profili social.

Secondo un esperto di statistica dell'Università del Massachussets nel 2098 Facebook si trasformerà nel più grande cimitero virtuale al mondo.

Ma la persona è in grado di controllare la propria ombra?

Per controllarla, bisogna conoscerla e, prima di tutto, essere consapevoli della sua esistenza e delle sue caratteristiche. Gli attuali smartphone ricordano ogni dettaglio delle nostre azioni, forse anche più di noi stessi. L'essere umano, infatti, può dimenticare qualcosa, ma il suo cellulare certamente no.

Da un’inchiesta realizzata dalla giornalista esperta in tecnologie Carola Frediani  ci si rende conto come nel quotidiano dell'essere umano sia oggi praticamente impossibile impedire che venga lasciata traccia di sé.

Dalle localizzazioni sulle mappe di Google al tracciamento dell'indirizzo IP all'acquisto di prodotti su un sito e-commerce o di un "mi piace" su una pagina social: la giornata trascorsa è degna della pagina di un diario, ma non tenuto consapevolmente e/o creato intenzionalmente dall'utente. Le sue azioni reali tradotte in un linguaggio digitale vanno ad alimentare la sua ombra che rischia così di diventare talmente ingombrante da non poter più essere controllata.

C'è da chiedersi: quanto le persone sono realmente consapevoli dell’influenza che le tecnologie hanno sulla loro vita? Quanto sono disposte a rinunciare alle comodità offerte da strumenti come gli smartphone a discapito anche della loro privacy?

I due quesiti sono certamente connessi, ma probabilmente si è arrivati al punto che non ci si chiede più né l'uno né l'altro. Si guarda solo ai benefici che possono derivarne, mentre l’ombra continua a crescere.

E se un domani fosse l’ombra a decidere per noi?

Pubblicato su Bancaforte il 24 marzo 2016


giovedì 17 marzo 2016

Chi ha paura del pensiero computazionale?

di Enrico Nardelli

Sempre più frequentemente capita di leggere, nel contesto di riflessioni più generali, considerazioni critiche verso i progetti di formazione degli studenti al pensiero computazionale realizzati dal MIUR (Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca). Potete leggere su questa pagina l’ultima in ordine di tempo.

Come coordinatore insieme al collega Giorgio Ventre di Programma il Futuro, progetto di punta del MIUR in quest’ambito, ritengo che tali considerazioni siano, in una certa misura, un elemento positivo perché segno di una diffusione sempre maggiore della conoscenza di tale termine (di cui ho scritto più estesamente) e delle iniziative formative in questo campo. A titolo informativo ricordo che questo progetto, dopo il successo del primo anno è partito ancora meglio nel secondo coinvolgendo sinora circa 600.000 studenti e 10.000 insegnanti.

La motivazione addotta a sostegno di giudizi negativi nei confronti di progetti di questo tipo è che siano diseducativi perché spengono le capacità di giudizio degli studenti trasformandoli da teste pensanti in macchine calcolanti. Ma così facendo si dimostra anche una carente conoscenza del reale significato di tale espressione.

Formare al pensiero computazionale, infatti, vuole dire niente altro che sviluppare negli studenti quelle capacità logico-razionali che sono alla base di qualunque attività di critica. Quindi è esattamente l’opposto di ciò che viene contestato!

Il suo valore formativo è per certi versi assimilabile a quello che ha fatto ritenere, in modo continuativo almeno a partire dal Rinascimento, lo studio della geometria un passo essenziale nella formazione di un cittadino istruito. Per lo studente che avesse più tardi approfondito materie scientifiche o ingegneristiche esso costituiva un utile allenamento preparatorio, ma per coloro che si fossero dedicati a giurisprudenza o medicina la sua rilevanza educativa era basata sulla sua architettura logico-deduttiva.

Studiando la dimostrazione di un teorema di geometria lo studente viene formato ad analizzare quali siano le basi su cui esso è fondato (gli assiomi) e a valutare se assumendo come vere certe premesse (le ipotesi) ne discendono necessariamente certe conclusioni (le tesi). Questo allenamento di base è essenziale per prepararsi a capire, ad esempio, da avvocato o giudice se una persona è colpevole o meno, o da medico di quale malattia sia affetta.

Allo stesso modo, sviluppando un programma informatico, che è l’esempio concreto più immediato di pensiero computazionale, lo studente è costretto a riflettere se questo programma, cioè il piano di lavoro che prepara per l’esecutore, metterà quest’ultimo in grado di raggiungere l’obiettivo desiderato. Ricordo infatti – in estrema sintesi – che mediante il pensiero computazionale si definiscono procedure che vengono poi attuate da un esecutore automatico, che opera nell’ambito di un contesto prefissato, per raggiungere degli obiettivi assegnati. È importante sottolineare che l’esecutore automatico di un programma informatico è un meccanismo puro, sprovvisto di qualunque intelligenza che possa trarlo d’impaccio in caso di difficoltà che non siano state previste dal suo programmatore.

Il fatto che tale esecutore automatico sia, in termini umani, così stupido da dovergli spiegare ogni cosa in dettaglio è una palestra fondamentale per allenare lo studente a qualunque futuro lavoro. Qualunque sia, egli dovrà guidare o comunque interagire con altre persone, che sono esecutori intelligenti, per conseguire i suoi obiettivi. Aver fatto pratica in condizioni più difficili costituisce una preparazione altamente rilevante.

Un collega, brillante algoritmista di valore internazionale, mi ha recentemente raccontato, adesso che è costretto dalle circostanze a dedicare tempo ad attività di amministrazione e governo del suo ateneo, che la forma mentis acquisita in tanti anni di produzione di “ricette” che guidassero stupidi meccanismi a risolvere problemi difficili è stata fondamentale per definire procedure e regolamenti che fanno funzionare meglio quei sistemi intelligenti che sono le organizzazioni umane.

Questo valore formativo dell’educazione al pensiero computazionale è riconosciuto in tutto il mondo, anche al di là dell’immediato impatto in termini occupazionali (che non è comunque da sottovalutare, visto che la maggior parte dei laureati triennali in Informatica ed Ingegneria Informatica trova subito lavoro).

Ho parlato recentemente in questo blog dell’iniziativa di Obama negli USA per finanziare la formazione informatica per tutti gli studenti con 4 miliardi di dollari. In conseguenza dell’attività di Code.org, l’organizzazione no-profit rappresentata in Italia dal CINI (Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica) che ne usa il materiale didattico come base per le attività formative di Programma il Futuro, negli ultimi due anni il numero di stati americani che hanno introdotto lo studio del pensiero computazionale nella scuola secondaria è passato da 12 a 29.

L’associazione europea degli informatici, Informatics Europe, di cui sono stato vice-presidente fino all’anno scorso, ha prodotto nell’aprile 2013 il rapporto “Europe cannot afford to miss the boat”, che sottolineava che “non offrire un’appropriata formazione informatica vuol dire danneggiare le future generazioni, in termini sia educativi che economici”.

Nel Regno Unito la formazione al pensiero computazionale è stata già introdotta dal settembre 2014 per tutti gli studenti in tutti gli ordini di scuola, anche sulla base del rapporto di gennaio 2012 “Shut down or restart” della Royal Society, una delle associazioni scientifiche più prestigiose al mondo, che aveva concluso che “è essenziale per tutti gli studenti acquisire familiarità con i concetti fondamentali dell’informatica”.

L’Accademia Francese delle Scienze, nel suo rapporto del maggio 2013 “Il est urgent de ne plus attendre”, ha sottolineato che “l’insegnamento dell’informatica deve essere indirizzato a tutti” e che “dovrebbe iniziare nella scuola primaria”. Essa costituisce già materia di insegnamento in Francia nella secondaria superiore ed è in programma il suo allargamento agli altri ordini di scuola.

Che il pensiero computazionale sia una componente fondamentale di un’istruzione bilanciata e adeguata per gli studenti del 21-mo secolo è un fatto ormai consolidato.

La sfida ora è quella di non demonizzare strumenti culturali che ci aiutano a leggere e comprendere meglio la società contemporanea. Se non capiamo come funzionano e come si governano le “macchine dell’informazione” potrebbero essere loro a governare noi.

Pubblicato il 10 marzo 2016 su Il Fatto Quotidiano

domenica 13 marzo 2016

La casa dalle pareti di vetro?

di Isabella Corradini

Sembra che Apple stia lavorando alla realizzazione di un nuovo i-Phone “inviolabile”, in grado di impedire alle forze dell’ordine di accedere al contenuto sul dispositivo.

Ma cosa ne pensa l’opinione pubblica? A tal proposito interessanti sono i risultati di un sondaggio sul tema Internet Security and Trust condotto dal Centre for International Governance (https://www.cigionline.org/internet-survey-2016), che ha coinvolto oltre 24 mila utenti in 24 paesi tra novembre e dicembre 2015.

La maggior parte delle persone è contraria alla costruzione di una tecnologia inviolabile. Inoltre, chi è favorevole a consentire alle autorità ad accedere alle conversazioni private online lo è se sono presenti validi motivi, come la sicurezza nazionale e il sospetto della commissione di un crimine.

In particolare, nel sondaggio è stato chiesto se si era d’accordo o meno con tre specifiche dichiarazioni, ovvero:

  1. Quando qualcuno è sospettato di un crimine il governo dovrebbe essere in grado di identificare con chi il sospettato ha comunicato online. L’85% degli intervistati si è dichiarato d’accordo.
  2. Se ci sono dei validi motivi di sicurezza nazionale le forze dell’ordine dovrebbero avere il diritto di accedere al contenuto delle comunicazioni online dei cittadini. Il 70% degli intervistati è stato d’accordo.
  3. Non deve essere permesso alle industrie di sviluppare tecnologie che impediscono alle forze dell’ordine di accedere al contenuto delle conversazioni online di un individuo. Il 63% degli intervistati ha concordato con questa dichiarazione

L’elevata percentuale di persone d’accordo con le prime due dichiarazioni è in qualche modo plausibile, visto che si tratta di estensione al contesto online di azioni normalmente possibili alle forze dell’ordine in situazioni più tradizionali.

E’ invece evidente che la terza questione è più controversa, pur se la maggioranza è d’accordo.

Forse il fatto che un terzo degli intervistati si sia dichiarato contrario può essere imputato ad una certa consapevolezza che ormai molta parte della nostra vita è presente nelle nostre conversazioni online. Pertanto l’assenza di una tecnologia quale quella descritta nella domanda potrebbe essere percepita come l’essere costretti a vivere in una “casa di vetro” senza alcuna possibilità di difesa del nostro privato.

mercoledì 10 febbraio 2016

Difendersi dall'ingegneria sociale

di Isabella Corradini

Tra le predizioni per il 2016 relative alle minacce in tema di cyber security (vedi ad esempio questo articolo pubblicato online su Cor.Com) viene anche annoverato l'aumento dell’ingegneria sociale, ovvero il cosiddetto social engineering (qui la pagina di Wikipedia). Con tale termine si intende una tipologia di attacco che, in ambito informatico, sfrutta tecniche e principi psicologici per manipolare le persone e indurle a fornire informazioni o a compiere determinate azioni, il tutto nel solo interesse dell'attaccante. L'ingegneria sociale è spesso il preludio ad attacchi informatici veri e propri. Si tratta di una sorta di hacking di tipo cognitivo, dal momento che l’efficacia dell’attacco richiede che si agisca sulla percezione dell'utente, influenzandone il comportamento.
Allo scopo, alcune disposizioni e tratti comportamentali tipicamente umani vengono sfruttati a vantaggio dell'ingegnere sociale. In genere si dice che si tende ad approfittare della disponibilità altrui. Ma la disponibilità può essere anche essere un modo per entrare in relazione con un’altra persona, ed è quello che ad esempio fa l’ingegnere sociale. Offrendo qualcosa a qualcuno, anche se non si trova in difficoltà, pone quest’ultimo nella condizione di dover ricambiare (soprattutto se accetta l’aiuto). Tale condizione di necessità-obbligo, indicato con il principio di reciprocità (una delle famose tecniche di acquiescenza di cui parla lo psicologo statunitense Robert Cialdini), è talmente radicata che anche in ambito sociologico gli studiosi ritengono che non ci siano società che si sottraggono a questo principio.
E’ chiaro però che abitudini e norme comportamentali possono essere sfruttate a proprio vantaggio, se si conoscono - almeno in parte - i meccanismi umani. E questo l'ingegnere sociale lo sa bene. Per di più li usa con determinazione e motivazione.
Di conseguenza l’attività di prevenzione risulta essere complessa e articolata: addestrare gli esseri umani alla percezione, a valutare in modo diverso le situazioni di pericolo, non è un qualcosa di realizzabile con un software. La complessità dell'essere umano è tale proprio perché comprende un groviglio dinamico di elementi di natura cognitiva, affettiva, culturale, di atteggiamento - solo per citarne alcuni – che si influenzano reciprocamente.
Nella prevenzione della minaccia dell’ingegneria sociale occorre procedere con un insieme coordinato di strumenti, metodologie e soprattutto con un gruppo di esperti in grado di coniugare un approccio sociale e tecnologico; da non trascurare l'importanza delle metodologie da adottare in campo formativo (simulazioni, giochi di ruolo, risoluzione di problemi, ecc.). Non basta, infatti, mettere le persone in aula ed elencare loro le cose da evitare o quella a cui prestare attenzione. Il tutto va inserito in un percorso di cultura del rischio e della sicurezza che non può esaurirsi in una singola attività.
In ogni caso, qualunque sia il percorso che si intende intraprendere, gli esseri umani, bersaglio e strumenti dell'ingegneria sociale, possono costituire un'importante barriera difensiva di qualsiasi organizzazione, anche quando si parla di sicurezza informatica.



Pubblicato su Bancaforte

lunedì 8 febbraio 2016

Negli USA Obama propone l'informatica per tutti

di Enrico Nardelli

Gli Stati Uniti vogliono fare davvero sul serio in tema di formazione informatica a scuola. Dopo che sia la Camera che il Senato hanno pochi mesi fa approvato con sostegno bipartisan l’ "Every Student Succeeds Act", che riconosce che l’informatica (computer science) è un soggetto fondamentale per l’educazione scolastica, il Presidente Obama ha proposto un piano da 4 miliardi di dollari affinché “tutti gli studenti americani dall’asilo al liceo imparino l’informatica e acquisiscano la competenza di pensiero computazionale necessaria per essere creatori, e non semplici consumatori, nell’economica digitale, e cittadini attivi di una società sempre più tecnologica”.

Dopo aver sottolineato, qualche settimana fa, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, l’importanza della formazione degli studenti in informatica e matematica per un miglior successo lavorativo, Obama ha proposto il 30 gennaio un piano multi miliardario per intervenire in modo concreto in un settore vitale per il futuro dell’economia americana. In dettaglio si tratta di 4 miliardi di dollari di fondi destinati agli stati, che verranno distribuiti nel corso di 3 anni per accompagnare piani quinquennali di formazione all’informatica in tutte le scuole. A questi si aggiungono 100 milioni di dollari direttamente ai distretti scolastici (l’analogo dei nostri Uffici Scolastici Regionali) e 135 milioni di dollari assegnati alla National Science Foundation e alla Corporation for National and Community Service, finalizzati alla formazione e supporto degli insegnanti ed alla realizzazione di materiale didattico.

Particolare attenzione in questo sforzo è rivolta all’incremento della partecipazione femminile e delle minoranze. Il problema è sentito negli Stati Uniti (e non solo): fra tutti gli studenti che nel 2015 negli USA hanno manifestato l’intenzione di seguire percorsi universitari relativi all’informatica solo il 22% è di sesso femminile e solo il 13% appartiene alle minoranze. Questo squilibrio si riflette nella forza-lavoro delle aziende ad alta tecnologia informatica che si trovano di conseguenza ad avere a disposizione meno talento di quanto è naturalmente disponibile.

Il Presidente ha fatto appello sia ai politici statali e locali che ad aziende, professionisti e filantropi affinché sostengano ed espandano gli sforzi in questa direzione. E molti hanno già risposto (p.es. Apple, Facebook, Google, Microsoft, tra le aziende high tech) o stanno annunciando la loro adesione.

Le motivazioni per spingere così fortemente in questa direzione sono molteplici: per gli Stati Uniti come nazione avere lavoratori ben formati sull’informatica è un elemento essenziale, in una società sempre più digitale, per continuare ad essere l’economia di riferimento per tutto il mondo ed il paese tecnologicamente più avanzato. Ma l’iniziativa è benefica anche in un’ottica occupazionale e di soddisfazione lavorativa. Uno studio del 2012 del Bureau of Labor Statistics (l’istituto che produce le statistiche ufficiali relative al mercato del lavoro americano) ha stimato (sulla base della situazione economica di allora – ma la tendenza è sostanzialmente confermata dai dati più recenti, ne parlerò prossimamente) che, tra il 2010 e il 2020, mentre i lavoratori aumenterebbero in media del 14% (cioè circa 20,5 milioni, con un salario medio annuo di 34.000 dollari) invece il numero di quelli che lavorano nell’informatica si incrementerebbe del 22% (circa 780.000 – salario medio di 78.000 dollari).

Un impulso fondamentale per far compiere gli USA a questo passo è stata la nascita 3 anni fa di Code.org, l’organizzazione no-profit che ha come motto “Ogni studente di ogni scuola dovrebbe avere l'opportunità di imparare l’informatica”. Nel 2014 il suo fondatore, Hadi Partovi, è riuscito a far diventare Obama il primo presidente americano ad aver mai scritto una linea di codice informatico. Come rappresentanti in Italia di Code.org abbiamo accolto Hadi Partovi a Roma nel settembre 2015, con la Ministra Stefania Giannini, ospiti della Camera dei Deputati, per l’apertura del secondo anno del progettoProgramma il Futuro”. Siamo in attesa che anche il nostro “Coder-in-Chief” scenda in campo.

In Italia (e in altri paesi europei) insistiamo di meno sulle ricadute economiche e tecnologiche di tale percorso formativo, anche se ci sono e sono altrettanto rilevanti che negli Stati Uniti. Tendiamo, invece, a sottolineare maggiormente che l’informatica è un’abilità fondamentale per fornire a tutti gli studenti un’educazione bilanciata e adeguata al 21-mo secolo. Per questo riteniamo che essa debba rientrare, a pari merito di discipline più tradizionali (quali la madrelingua, la matematica, le scienze, solo per citarne alcune) nell’insieme delle materie scolastiche di base per tutti gli studenti. Proprio per questo motivo previlegiamo, al posto dell’usatissimo coding (cui va però riconosciuta la pregnanza mediatica), il termine pensiero computazionale, e considerandolo un’abilità necessaria per la risoluzione di problemi in qualunque disciplina o settore. La capacità di suddividere un problema in problemi più semplici, di riconoscere le relazioni tra il problema in esame e quelli già risolti, di concentrarsi in ogni fase solo sugli aspetti più rilevanti, di identificare e programmare i passi necessari per risolverlo, di coordinare in modo chiaro e preciso il lavoro dei collaboratori: si tratta di capacità che il pensiero computazionale aiuta a sviluppare. Ho discusso recentemente su queste colonne della sua importanza dal punto di vista formativo.

È per questa sua valenza formativa, e non certo per far diventare tutti gli studenti italiani dei programmatori che anche in Italia il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), presentato dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR) a fine Ottobre 2015, ha indicato l’insegnamento del pensiero computazionale come essenziale per la formazione degli studenti nell’era digitale. In particolare, l’Azione 17 del piano si propone di condurre ogni studente, nel corso dei prossimi tre anni, a svolgere 10 ore annuali di educazione al pensiero logico-computazionale.

A Dicembre 2015, nel corso della Settimana Internazionale di Educazione all’Informatica, l’Italia è stato il primo paese al mondo, a parte gli Stati Uniti, sia per numero che per densità di eventi relativi al pensiero computazionale. Dall’inizio dell’anno scolastico abbiamo sinora coinvolto più di 600.000 studenti italiani, in ogni ordine di scuola e regione italiana.


Insomma, ancora una volta, in Italia diamo prova di essere capaci di agire alla pari con i migliori al mondo.

Pubblicato il 1 febbraio 2016 su Il Fatto Quotidiano

domenica 24 gennaio 2016

Tecnostress....lavoro correlato?

di Isabella Corradini

I cambiamenti introdotti dall'uso massiccio delle tecnologie dell'informazione riguardano non solo le singole persone ma le organizzazioni lavorative nel loro complesso, strutturate sempre più su base tecnologica.
Spesso però ci si dimentica che le persone restano l'elemento chiave e trainante di tutte le organizzazioni.
Persone e tecnologie rappresentano un binomio che deve essere in grado di funzionare, rispettando i limiti degli uni e degli altri e facendo leva sui reciproci punti di forza.
E’ indubbio che le tecnologie sono indispensabili al nostro vivere quotidiano.
Ma è altrettanto vero che esse si evolvono con una rapidità impressionante, al punto da rendere difficoltoso l'adattamento cognitivo degli “umani”, i quali si trovano ad inseguire i cambiamenti tecnologici in una corsa contro il tempo (e contro ogni possibilità di vittoria!) . Negli ambienti lavorativi la sfida è all’ordine del giorno, dal momento che per lavorare bene è necessario essere aggiornati e informati, anche sugli strumenti tecnologici usati.
L'obiettivo è la produttività, ma l'altra faccia della medaglia è la salute dei lavoratori.

Le tecnologie, se impiegate senza tener conto dei naturali limiti dell’essere umano, possono rappresentare un fattore di rischio stress nelle organizzazioni.
Nel 1984 lo psicologo Craig Brod introdusse il termine tecnostress per indicare lo stress indotto dall’uso delle tecnologie, specie informatiche.
Successivamente il concetto è stato ripreso anche da altri studiosi. Tra questi gli psicologi Michelle Weil e Larry Rosen (1998) che hanno ampliato il significato del fenomeno tecnostress evidenziandone l’impatto negativo su atteggiamenti, pensieri, comportamenti e sul fisico causati direttamente o indirettamente dalla tecnologia. O ancora Salanova et. al (2007) che interpretano il tecnostress come una condizione psicologica negativa associata all'uso delle tecnologie e caratterizzata da ansietà, fatica mentale, sfiducia e percezione di inefficienza.

A distanza di oltre 25 anni dall’osservazione di Brod è necessario sviluppare ulteriori riflessioni.
La posta elettronica da evadere quotidianamente ha raggiunto una mole spaventosa, così come la quantità di informazioni alle quali si è esposti (con il rischio di sovraccarico informativo).
Si dice che l'individuo può scegliere quando staccare la spina, ma è davvero possibile?

Nel privato egli può decidere ad esempio, di spegnere il suo smartphone, ma sul lavoro tale scelta sarà condizionata dal fatto che i processi aziendali, dalla produzione alla commercializzazione, alla comunicazione interna fino al rapporto con gli stakeholder, includono necessariamente l’impiego di tecnologie per lo svolgimento di tali processi. Senza contare che i dispositivi tecnologici, in continua evoluzione, richiedono aggiornamenti continui (e dunque una certa dimestichezza) da parte di chi ne fa uso, pena l’impossibilità di svolgere la propria attività lavorativa, o comunque, di svolgerla al meglio.
La variabile tecnologica non può essere trascurata in relazione al tema dello stress, dal momento che, oltre ai ritmi e alle modalità imposte dalla scelta di un uso sempre più ampio di strumenti tecnologici, gli stessi rischiano di tramutarsi in fattori di stress se percepiti come invasivi o oppressivi.
La normativa in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (D. Lgs. 81/2008) obbliga le imprese alla valutazione del rischio stress lavoro-correlato, tema che in questi anni ha stimolato (e scatenato!) ampi dibattiti.
Ci si chiede a questo punto: le tecnologie dell'informazione debbono essere ricomprese in una valutazione del rischio stress? E se sì, con quali metodologie?


Il tema è certamente complesso. Tuttavia, tenendo conto della rilevanza della componente tecnologica nelle organizzazioni lavorative, nell’ottica di una valutazione dello stress lavoro-correlato che prenda in considerazione tutti i fattori di rischio, è opportuno cominciare ad adottare una visione integrata di tipo psicosociale e tecnico.