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martedì 3 maggio 2016

Il cyber è più reale che mai

di Isabella Corradini

Siamo talmente abituati ad usare termini come “realtà virtuale” e prefissi come "cyber" in ogni situazione, che non ci rendiamo conto di come quest'uso possa influenzare i comportamenti e la loro percezione.

Sappiamo di cosa parliamo quando usiamo il termine "realtà virtuale"? Secondo la definizione essa rappresenta la simulazione di una situazione reale con il quale il soggetto umano può interagire. Quindi, il virtuale come simulazione del reale.

La Rete, invece, non è una simulazione al di fuori di noi ma parte integrante del nostro vivere quotidiano. Anzi, l'impressione è che questa cosiddetta realtà virtuale abbia ormai fagocitato quella reale. Consultiamo quotidianamente la Rete per tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno, dalla ricerca di un dettaglio ad una prenotazione di viaggio. Ci connettiamo con il nostro mondo sociale, noi stessi veniamo contattati da altre persone mediante mail, social network, e via dicendo. Gli effetti di questo straordinario connettore che è Internet sono dunque assolutamente reali e tangibili.

L’osservazione iniziale nasce quindi dalla considerazione che un uso non appropriato della terminologia può avere un forte impatto sulla percezione dei comportamenti umani.

Ovvero, il fatto di dire "tanto è virtuale" può favorire comportamenti superficiali o negativi, nei quali la valutazione delle conseguenze non è ponderata rispetto agli effetti reali.
Si pensi, ad esempio, al fenomeno del cyber bullismo, ovvero quella forma di bullismo elettronico che mediante i dispositivi tecnologici di comunicazione, dai cellulari ai social network, replica comportamenti aggressivi e prevaricatori nei confronti di soggetti più deboli.
Di certo la mediazione operata dalle tecnologie dell’informazione favorisce la disinibizione del comportamento, dal momento che chi agisce pensa che a compiere l'atto concreto sia lo strumento tecnologico, deresponsabilizzandosi dunque rispetto all'accaduto.
Ma a ben vedere l'intenzione di prevaricare sull'altro c'è, anche se espressa con una differente modalità. Che peraltro è devastante, in quanto amplifica la conoscenza del fatto, estendendola via web ad una moltitudine di persone, invisibili, ma anch’esse esseri viventi.

E si sa che quando la vittima è reale, le inibizioni sono più forti e il passaggio all’atto (acting out) diventa più difficile. Nel nostro caso, invece, l’intermediazione tecnologica inserisce una distanza fisica che produce distacco emotivo ed una minore responsabilizzazione, rendendo l’azione più facile da compiere. Ma anche se si pensa che l'atto sia compiuto in un contesto virtuale, la vittima è comunque "reale" così come lo sono le conseguenze prodotte, in alcuni casi purtroppo estreme.

Lo stesso prefisso cyber viene ormai impiegato per ogni cosa. Anche per descrivere condotte criminose di varia natura (e già note), come il cyber stalking, il cyber terrorismo, il cyber spionaggio, solo per fare un esempio. Tuttavia, occorre cautela: usando il prefisso cyber si rischia, infatti, di portare l'attenzione solo sull'aspetto tecnologico della questione, e di trascurare quello umano. E si sa che in una condotta criminosa (ma anche nel comportamento umano in generale) la motivazione e la volontà sono elementi di comprensione assai rilevanti.

L'elemento tecnologico favorisce l'esecuzione ma bisogna considerare che dietro c'è sempre chi elabora strategie, chi esegue e chi ne subisce le conseguenze. E non si tratta di una “retrovia” del comportamento criminale, ma di una parte importante dell’azione stessa.

Senza contare che virtuale e cyber vengono spesso usati come sinonimi nel linguaggio comune, rafforzando una percezione di distacco rispetto al reale.

Ma il cyber è più reale che mai.

Pubblicato su Bancaforte il 14 aprile 2016.

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