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mercoledì 29 giugno 2016

Informatica: il nuovo latino che tutti amano

di Enrico Nardelli

Chiarisco subito che, pur essendo laureato in ingegneria, ho studiato al classico conservando un profondo amore per le culture latina e greca, che ritengo alla base della nostra civiltà. Non proporrò quindi di sostituire lo studio del latino con quello dell’informatica, né di diminuire la formazione umanistica nella nostra scuola. Tutt’altro.

Parto dalla dichiarazione che la Ministra Stefania Giannini aveva rilasciato in occasione dell’avvio del secondo anno di Programma il Futuro: “Il coding non è un’attività per informatici, ma una competenza trasversale che, come per le competenze linguistiche, è fondamentale acquisire fin dai primi anni di studio. Il coding è una nuova lingua, una lingua computazionale, e impararla è un modo straordinario per entrare nel mondo con il piede giusto. La scuola deve essere protagonista nella diffusione di queste nuove esperienze”.

Collego a queste considerazioni alcune riflessioni di un grande matematico francese, Cédric Villani, recentemente vincitore della Medaglia Fields, considerata il premio Nobel per la Matematica, anche lui un convinto sostenitore dell’importanza di insegnare l’informatica nelle scuole. In alcune sue recenti dichiarazioni egli confronta il linguaggio della programmazione e gli altri linguaggi. Villani accosta il linguaggio della programmazione a quello della matematica, come “lingue che aiutano l’uomo nella sua battaglia per la comprensione del mondo” e le distingue dalle lingue come l’inglese o il tedesco “che servono nella comunicazione tra le persone”.

Parla poi delle lingue come il latino che si imparano attraverso le regole (invece che attraverso il dialogo) per sottolineare come il loro valore formativo risieda “nella disciplina mentale che bisogna avere, nella ginnastica intellettuale che costringe ad integrare i vari insiemi di regole, combinazioni e configurazioni”. Questo esercizio, continua, è benefico per i nostri circuiti neuronali esattamente come quello praticato nello studio della matematica o nell’esercizio del “pensiero computazionale”. Questo termine è quello che usiamo quando vogliamo sottolineare gli aspetti culturali dell’informatica, indipendentemente dalla tecnologia digitale in cui essa si manifesta ormai dovunque intorno a noi. Ne ho recentemente discusso un esempio pratico.

Villani sottolinea poi un ulteriore vantaggio educativo che ha l’informatica: “È praticamente la sola disciplina che permette agli studenti di correggersi da soli”. Diversamente da altri linguaggi, nei quali in assenza di una correzione da parte del docente è facile perseverare nell’errore, un programma informatico che non raggiunge il suo obiettivo manifesta immediatamente il suo fallimento. Anche se questa osservazione non va considerata in modo assoluto (dal momento che – come accade in molti altri contesti – si può raggiungere l’obiettivo desiderato anche con un metodo scorretto) certamente il fatto che, nel corso del processo di apprendimento si possano insegnare i concetti fondamentali del pensiero computazionale mediante attività didattiche che segnalano subito allo studente se sta procedendo o meno in modo corretto, è estremamente utile.

E, aggiungo io, è ugualmente vantaggioso in termini di coinvolgimento degli studenti che quest’apprendimento possa avvenire in modo visibile e costruttivo, muovendo un personaggio sullo schermo o un robottino sul pavimento della classe o – come accade nelle versioni non tecnologiche delle nostre attività didattiche – guidando un compagno ad attraversare un labirinto.

Proprio questa capacità di feedback immediato è uno dei motivi dell’attrazione dei più giovani, che li ha indotti a partecipare numerosi al concorso Codi-Amo, una competizione basata sul pensiero computazionale e su come esercitarlo e formarlo. Quasi 800 scuole e 1.200 docenti hanno lavorato tra marzo ed aprile (mesi generalmente molto impegnativi nelle scuole) per inviare quasi 2.000 elaborati (con una mobilitazione quindi di circa 40.000 studenti) nei quali hanno realizzato storie, giochi e grafica utilizzando la programmazione informatica.

Nel corso dell’evento di chiusura del secondo anno di Programma il Futuro sono stati premiati i 34 vincitori delle risorse messe a disposizione dai partner dell’iniziativa, ed assegnate numerose menzioni d’onore e di merito a classi, istituti e docenti che si sono particolarmente distinti per qualità ed impegno.

È stato anche il momento di tirare le somme della partecipazione al progetto: raggiunto e superato il milione di studenti che la Ministra aveva auspicato all’apertura del secondo anno, ogni altro indicatore numerico segnala un risultato estremamente lusinghiero, a riprova del grande interesse di insegnanti e studenti agli aspetti culturali della programmazione informatica.


Vale la pena sottolineare che questi numeri corrispondono a quasi il 15% del sistema scolastico italiano. Riprendendo i termini introdotti da Everett Rogers per descrivere la diffusione delle innovazioni, è interessante quindi osservare che la propagazione del pensiero computazionale nelle scuole ha di fatto quasi superato sia la fase degli innovatori (i primissimi che si avventurano nell’usare le novità) che quella dei pionieri (la seconda ondata che colonizza le nuove terre).

Considerando che l’adesione al progetto è lasciata alla libera scelta delle scuole vuol dire che i nostri docenti sono in grado di reagire positivamente a stimoli culturalmente interessanti e che, forse, per i nostri studenti l’informatica può essere una disciplina più amata di latino e matematica per sviluppare le capacità cognitive razionali.

Speriamo allora con il prossimo anno di riuscire ad arrivare al coinvolgimento della cosiddetta maggioranza anticipatrice, per trasformare quest’innovazione in un fenomeno di massa che possa contribuire ad un migliore futuro per l’Italia.

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Pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 21 giugno2016.

sabato 4 giugno 2016

Awareness nella cybersecurity

di Isabella Corradini


Per parlare di awareness nell’ambito della cybersecurity bisogna partire da un principio fondamentale: si tratta innanzitutto di un tema che non riguarda pochi eletti o solo gli specialisti della sicurezza. La cybersecurity riguarda da vicino tutti i cittadini, utilizzatori quotidiani delle tecnologie dell’informazione. Per questo la sicurezza delle informazioni e della Rete non può essere delegata solo a chi, per lavoro, si occupa di strategie di difesa.

D’altro canto, sia a livello europeo che italiano, sempre più si sottolinea l’importanza del ruolo della sensibilizzazione e della formazione su queste tematiche.
Il Piano Nazionale per la protezione cibernetica e la sicurezza informatica del 2013 individua gli indirizzi operativi e le linee d'azione per dare concreta attuazione al Quadro strategico Nazionale per la sicurezza dello spazio cibernetico. E' necessario, infatti, sviluppare le capacità di risposta del Paese alle minacce cibernetiche, in continua evoluzione.

Le risposte, pur nella loro complessità, debbono essere tra loro integrate, se si vogliono ottenere risultati efficaci. Si va dall’attenzione al singolo cittadino, alla cooperazione tra il settore pubblico e privato, alla comunicazione strategica, alla formazione e addestramento.

Il punto della formazione appare di particolare rilevanza in quanto il fattore umano continua ad essere il punto debole della sicurezza (pur potendone costituire il punto di forza), ed è su questo che bisogna investire in modo determinante. Non è un caso che, di qualsiasi tipo di sicurezza parliamo, le misure perdono efficacia se non si presta attenzione anche alle persone che quotidianamente ne fanno uso, contribuendo in modo attivo alla costruzione della sicurezza.

Ma come agire sul fattore umano? E, soprattutto, con quali modalità?

Prima di tutto l'intervento deve andare nella giusta direzione: sviluppare cultura della sicurezza in ambito informatico non può consistere nella sola erogazione di corsi formativi, se l'obiettivo che ci si prefigge è quello di raggiungere una consapevolezza dei rischi cyber e della propria capacità di prevenirli e/o di gestirli.

Nella pratica quotidiana assistiamo all’utilizzo di parole sicuramente attrattive dal punto di vista tecnico, come quella di awareness, ma che poi devono tradursi in efficaci programmi di informazione, formazione e addestramento.

La consapevolezza, infatti, va ben oltre la conoscenza: possiamo conoscere, ma non per questo essere consapevoli. E’ necessario integrare conoscenza ed esperienza. Attraverso metodologie interattive, case analysis, role playing, simulazioni, è possibile, ad esempio, far comprendere gli impatti di un attacco informatico, di una perdita di dati. E, nel contempo, l'importanza del proprio comportamento per la prevenzione.

Nella progettazione di questi interventi didattici è altrettanto necessario coinvolgere figure professionali con esperienza soprattutto nel campo delle metodologie formative. Pena la perdita dell’efficacia di questo tipo di formazione.
Va da sé che l’efficacia delle attività formative e informative si raggiunge solo se si adottano criteri di qualità: adeguata progettazione degli interventi, metodologie appropriate in funzione degli obiettivi, selezione di docenti qualificati.

L’awareness si costruisce con e sul fattore umano.



Estratto rielaborato dalla rivista ICT Security: Le buone pratiche nella cybersecurity, ICT Security.